Era una notte che pareva fatta apposta, un’oscurità cagliata che a muoversi quasi se ne sentiva il peso. E faceva spavento, respiro di quella belva che era il mondo, il suono del mare: un respiro che veniva a spegnersi ai loro piedi. Stavano con le loro valigie di cartone e i loro fagotti, su un tratto di spiaggia pietrosa, riparata da colline, tra Gela e Licata: vi erano arrivati all’imbrunire, ed erano partiti all’alba dai loro paesi, aggrumati nell’arida plaga del feudo, Qualcuno di loro, era la prima volta che vedeva il mare: e sgomentava il pensiero di dover attraversarlo tutto, da quella deserta spiaggia della Sicilia, di notte, ad un’altra deserta spiaggia dell’America…
(Il lungo viaggio, Il mare color del vino, Leonardo Sciascia, 1973)
Ci può essere una cosa più triste di quella di essere costretti a lasciare la propria terra? Chi lascia la propria terra mantiene intatta la speranza di poter un giorno ritornare.
I viaggi migratori hanno sempre contraddistinto i siciliani. Esodi massicci già a partire dal 1871, quindi all’indomani dell’Unità d’Italia, fino al 1950; la Sicilia ha raggiunto il suo apice nei primi anni del Novecento, con destinazioni privilegianti gli Stati Uniti.
Andare in cerca di una nuova fortuna, di una dignità che il paese d’origine sembra non assicurare. Ci sono viaggi come nel caso dei Siciliani del mare color del vino che non hanno nessuna partenza e che sbarcano, alla fine di una traversata perigliosa, sulle coste della stessa isola o come nei ricordi di tanti che sul punto di partire si rifiutano, non solo per la paura della lunga navigazione o per la non minore angoscia di affrontare una lingua straniera, ma più per l’atavica convinzione che l’America, e quindi la fortuna, si trovi proprio nella terra che pensi di abbandonare.
Testo di Antonella Coco
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